Il Vangelo di questa domenica è il capitolo 6 dell’evangelista Giovanni sul pane. È un brano sul valore inestimabile dell’Eucaristia. Lo vogliamo contestualizzare avendo presente non soltanto quelle pagine di Vangelo che abbiamo richiamato nelle domeniche precedenti rispetto al fatto che nel Vangelo di Matteo Gesù dice: “Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. […] Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”.

Vogliamo contestualizzarlo anche riguardo all’affermazione ripetuta nel Vangelo di Luca che Gesù fa che non possiamo servire due padroni cioè, nello specifico, Dio e mammona, cioè le ricchezze, il denaro, il cibo che non dura per la vita eterna; ma che dobbiamo scegliere da che parte stare e questa scelta in Gesù non è una falsa alternativa come invece le persone che vanno da lui la presentano (cfr. Lc 16). Una falsa alternativa per dire: “Se vogliamo procurarci il cibo che sfama la vita terrena non possiamo dedicarci, almeno non troppo o fino a un certo punto al cibo che dura per la vita eterna”. Per Gesù questa è una falsa alternativa perché nel cibo che dura per la vita eterna c’è anche il cibo che sfama la vita terrena. Se invece noi cominciamo a contrapporre questi tipi di pane – quello terreno e quello celeste – alla fine rimaniamo a bocca asciutta di entrambi. L’Apostolo Paolo esprime la medesima realtà nella seconda lettura di questa domenica quando tratta dell’uomo vecchio che si corrompe dietro alle passioni ingannatrici e dell’uomo nuovo: l’uomo vecchio non si preoccupa o si preoccupa male del cibo che dura per la vita eterna, mentre l’uomo nuovo se ne preoccupa correttamente e per questo motivo, come nella prima lettura a proposito della manna, non eccede nel consumo dei beni temporali proprio perché li vive in funzione della ricerca dei beni eterni. A questo proposito sono ancora efficacissime le parole dell’Apostolo Paolo, quando afferma “cercate le cose di lassù” (cfr. Col 3).

Il Vangelo è costruito con grande sapienza e santità dall’evangelista e Apostolo Giovanni che fa un gioco linguistico sulla parola segno. A un certo punto Gesù dice: “Voi mi cercate non perché avete visto dei segni ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati” – come nel brano della moltiplicazione dei pani e dei pesci che è stato proclamato domenica scorsa. E poi le persone nel momento in cui Gesù fa questo discorso sul pane del cielo gli dicono: “Quale segno tu compi? Quale opera fai?”. Il Vangelo di Giovanni è noto per essere il Vangelo dei segni. Comincia con il segno delle nozze di Cana, fino al segno dei segni che è la Pasqua di Gesù, che è la risurrezione di Gesù.

E a quel punto se la risurrezione di Cristo è il segno dei segni, nel senso che tutti i segni del Vangelo di Giovanni sono anticipazione catechetica dell’evento centrale della rivelazione della Trinità che Gesù fa, noi saremmo tentati di dire che questo segno vale solo per chi crede perché la resurrezione non è un fondamento che può essere dimostrato come tale; ma Gesù è molto attento nell’evitare anche questo tranello quando afferma che la fede è un’opera. La fede non è una realtà che fa parte di un mondo spirituale avulso dalla concretezza della quotidianità dove noi abbiamo a che fare con il fatto di dover arrivare a fine mese. La fede non è il rifugiarsi dentro una presunta (che non esiste da nessuna parte) trascendenza, che ci porta ad estraniarci da tutte le realtà terrene che ci affliggono sperando che il Signore faccia il miracolo, quando in realtà questo rischierebbe di essere più un atteggiamento miracolistico o miracoloso – non faccio in tempo qui ad illustrare la differenza tra questi termini. La fede è un’opera e dunque ci viene in mente che l’Apostolo Tommaso e gli altri Apostoli la sera del giorno di Pasqua e anche otto giorni dopo vedono e toccano Cristo risorto e che la loro fede è soggettivamente vera nel momento in cui, come ai due discepoli di Emmaus, si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero mentre prima non erano capaci di riconoscerlo: Gesù camminava con loro la sera di Pasqua ma loro lo hanno scambiato per uno così straniero in Gerusalemme da non sapere quello che era successo quando Cristo risorto, invece, era lì di fianco a loro. Quindi si vede bene che la fede è un’opera che implica, esige la nostra adesione. Ma non è che siamo noi a fare diventare vera una cosa che non lo è; e quindi gli altri hanno ragione a dirci la fede è soggettiva perché per chi crede Cristo è risorto, per chi non crede può non essere vero e per chi crede non si può dimostrare che Cristo è risorto. La fede è un’opera di riconoscimento, è la capacità di vedere le cose come stanno davvero. Questo è uno dei punti rispetto ai quali insisto più frequentemente: la fede cristiana non ci presenta un’oggettività che non implica o sottostima la dimensione della libertà. L’oggettività della risurrezione, in altre parole, non è né contraddittoria né separabile dalla soggettività, che è propria sia di Cristo risorto sia dell’adesione di noi credenti. L’atto di fede è tale per cui riconosciamo la verità della risurrezione di Cristo nel momento in cui, come è accaduto per i due discepoli di Emmaus, la nostra soggettività riconosce la soggettività dell’oggettività di Cristo: la vera libertà dell’assenso credente risiede nel riconoscere la libertà della Verità che è Cristo. Insisto ancora nel rimarcare la differenza tra questa soggettività dell’oggettività rispetto al soggettivismo contemporaneo di una soggettività senza oggettività, a fronte dello sbilanciamento di una proposta di fede nella quale si è rischiato di identificare l’oggettività della soggettività di Cristo con l’oggettività senza soggettività del razionalismo illuministico che ha separato, impoverendole entrambe, la libertà dalla verità.

Ed ecco il significato del segno di Gesù: Gesù dice che occorre anche saper fare bene una distinzione tra il pane del cielo e il pane dal cielo. Il pane dal cielo è la manna di cui ci ha parlato la prima lettura. Il pane del cielo, di cui la manna è anticipazione parziale, è Cristo stesso e nell’Eucaristia noi riceviamo il segno dei segni, cioè la presenza reale di Cristo risorto e la presenza reale di Cristo risorto genera in noi l’opera delle fede e l’opera della fede è riconoscere Gesù Cristo e amare come ama lui e quindi cercare il cibo che dura per la vita eterna e per questo darci da fare perché il mondo creda, perché la fede sia riconosciuta, scelta, vissuta, condivisa.

È in quest’ottica che possiamo interpretare bene quello che la settimana che ci siamo  lasciati alle spalle ci ha consegnato: il documento scritto di Papa Francesco che ha chiesto alla Congregazione per la Dottrina della Fede di modificare il numero del Catechismo inerente alla pena di morte. Allora qualcuno qui potrebbe dire: “Questo significa che si può cambiare la dottrina, il Catechismo è modificabile, la verità di fede si può trasformare perché a seconda di come cambiano i tempi cambia la verità di fede e quindi, alla fine, dire che poi Gesù Cristo è risorto e che questo è il fondamento della nostra fede… potrebbe anche non essere vero che non cambierebbe niente, perché in realtà tutto può cambiare”. I dogmi non sono qualcosa che imbriglia la ragione ma, al contrario, sono delle indicazioni che stimolano la ragione perché possa avvicinarsi, nell’esercizio del pensiero redente, alla pensabilità soprannaturale dell’impensabile naturalmente, e cioè l’intimità di Dio, che non è padroneggiabile dalla nostra ragione limitata, finita e creaturale. Occorrerebbe qui approfondire la differenza tra ciò che si intende per sviluppo del dogma rispetto a ciò che si intende per evoluzione, intendendo con tale termine l’operazione sbagliata che con un’immagine analogica presa in prestito dalla biologia potremmo definire come la sua mutazione genetica.

Qualcuno dei presenti c’era e si ricorda, forse, quando ci siamo soffermati sui principi della Dottrina sociale della Chiesa, che nella storia della Chiesa è stata inaugurata dalla enciclica Rerum novarum del 1891 di Papa Leone XIII. E a proposito di quei principi della Dottrina sociale è da raccordarsi bene il rapporto tra il Catechismo della Chiesa cattolica e la Dottrina sociale. Se noi con l’opera della fede siamo in grado di trasformare il mondo facendo sì che la storia vada verso un futuro di pace, di sviluppo, di sussidiarietà, di bene comune, allora possiamo sperare che nel mondo la giustizia sia tale per cui il metodo educativo preventivo – come quello di San Giovanni Bosco, che dovrebbe poter diventare patrimonio dell’umanità, per chiosare l’UNESCO – riesca  a debellare alla radice le cause di ingiustizia che determinano la devianza sociale, al punto che la delinquenza diminuisce e la pena piuttosto che essere soltanto punitiva può diventare riabilitativa e la criminalità si può ridurre. Voi direte che questa è utopia… Le letture di questa domenica ci dicono che è l’opera della fede. È l’opera della fede che ha l’efficacia di trasformare le relazioni nella Chiesa e di renderla lievito di pace nella società. Ecco: la modifica del Catechismo è una espressione della fede in Dio che ha più fede dell’uomo di quanto lui ne abbia in se stesso. Perché noi siamo pessimisti e diciamo: “Il mondo speriamo che non peggiori troppo ma è più facile che peggiori piuttosto che che migliori…”. Ma il Papa ci dice che se noi impariamo a nutrirci del pane del cielo che ci insegna a condividere anche il pane della terra diventiamo capaci di modificare la società non in peggio, o ben che vada alla meno peggio, ma in meglio. Mettendo in pratica la Dottrina sociale della Chiesa diventiamo capaci di migliorare le condizioni dell’uomo al punto che riconosciamo che il quinto comandamento non autorizza nessuna persona a sentirsi in grado di possedere la vita di un altro al punto di decidere della sua stessa vita. Poi certo la questione è complessa e bisognerebbe entrare nel merito dell’articolo del Catechismo precedente, a proposto del fatto che si riferiva prevalentemente a cosa dover fare nel momento in cui c’è una persona che minaccia tutta l’umanità e non c’è altro modo di fermarla. Ma quella situazione limite non può diventate il principio di riferimento in base al quale giudicare tutte le possibili altre situazioni rispetto alle quali ci si sentirebbe autorizzati ad imporre la pena di morte.

Ho preso un esempio se volete limite ma di attualità per dare lo stimolo a riflettere sul fatto che la nostra fede è un’opera. Ed è l’opera di credere in Cristo risorto e che non facciamo noi diventare vero che Cristo è risorto come chi non crede fa diventare vero il contrario soggettivisticamente. Questa verità è tale perché è reale nel sacramento dell’eucaristia che noi celebriamo ed è reale anche perché, dal sacramento che celebriamo, mediante la conversione della nostra soggettività umana alla soggettività trinitaria dell’oggettività della resurrezione di Cristo, diventa spiritualità che determina moralmente una regola di vita, uno stile dei cristiani, lievito della società, che ci rende capaci di trasformarla e di farla andare anziché meno peggio per il meglio. Questo è il punto di incontro intrinseco tra la virtù della fede teologale e quella della speranza teologale: quando celebriamo i funerali il rito prevede che noi sottolineiamo che è certa la speranza che noi risorgeremo nel corpo e non solo nell’anima, nella beatitudine del Paradiso. Questa speranza certa è un lievito di trasformazione della realtà, è un lievito di azione nella storia degli uomini che può cambiare le sorti dell’umanità.

Chiediamo allora al Signore di poter vivere con frutto questa Eucaristia, decidendo di rinnovare la nostra consapevolezza di che cosa è la nostra fede, un’opera che ci porta a riconoscere il segno dei segni, Cristo risorto nell’Eucaristia che celebriamo dove Cristo risorto è veramente presente e ci rende abilitatori e costruttori di trasformazione del mondo. È un lievito di cui abbiamo una responsabilità  precisa in termini di agire sociale nella storia, rispetto al quale lievito abbiamo oggi necessità di reinventare i modi per impastarlo. Chiediamo al Signore che con il suo Santo Spirito ci dia l’ispirazione giusta.

18esima domenica del tempo ordinario anno B – 5 agosto 2018